Quale sarà il futuro del libro e della lettura? Il digitale e la tecnologia cambieranno il modo di scrivere, produrre e leggere i libri? Abbiamo provato a rispondere a questi interrogativi insieme al matematico e saggista Piergiorgio Odifreddi. Un’intervista che ci proietta anche al tema che il Centro per il libro e la lettura ha scelto per il Salone Internazionale del libro di Torino, “Leggere al futuro”. Odifreddi, insieme alla scrittrice Dacia Maraini, sarà ospite di “Chiavi di lettura”, un dialogo con il direttore del Centro Angelo Piero Cappello sui libri che hanno “aperto” nuovi orizzonti, favorendo una riflessione seria, concreta e stimolante sulle questioni che caratterizzano il presente.
Dott. Odifreddi, con la pandemia si è riproposto il tema delle fake news e della cattiva informazione: la lettura può essere un antidoto contro la disinformazione e lo scetticismo nei confronti della scienza?
«La lettura, di per sé, non è un antidoto a niente: anzi, può costituire un supporto e un rafforzamento delle fake news. Se bastasse leggere, la soluzione sarebbe facile: il problema è invece che cosa leggere, e anche come leggere. Per fare un esempio estremo e paradossale: nella prima metà del Novecento, a provocare la Seconda guerra mondiale sono stati i tedeschi in Europa e i giapponesi in Asia, cioè due popoli fra i più acculturati del pianeta. Molti nazisti leggevano Kant e suonavano Mozart, ad esempio, ma la loro cultura non li ha resi immuni dalle brutalità del nazismo stesso. Per contrastare le fake news, in particolare quelle parascientifiche, occorre quindi saper scegliere cosa leggere: meglio i libri di divulgazione che le riviste, meglio le riviste di divulgazione che i giornali, meglio i giornali che le televisioni, meglio le televisioni che i siti internet… Più c’è controllo a monte sulle informazioni, e meno fake news ci si può aspettare di trovarci a valle. Anche perché, nonostante quello che si crede, la scienza non è democratica, e nella scienza “uno non vale uno”: ci sono “uni” che valgono tutto, ovvero gli esperti, e “uni” che non valgono niente, ovvero tutti gli altri».
Qual è il ruolo del libro e della lettura in un mondo quasi completamente digitale?
«Purtroppo, già McLuhan aveva messo in guardia sull’inversione della freccia culturale. La cultura, come noi la conosciamo, è stata sostenuta per un paio di millenni dai libri, e trasmessa attraverso essi. Nell’Ottocento è iniziata l’inversione provocata dalla diffusione dei giornali, e nel Novecento sono via via arrivate la radio, il cinema, la televisione, internet e i social media. Ciascuno di questi mezzi ha allontanato il pubblico dalla lettura, che pone a confronto l’autore con il lettore, e l’ha avvicinato alla fruizione multimediale, in cui tutti sono diventati autori e nessuno lettore. Come temeva e prevedeva McLuhan, il mondo è diventato un “villaggio globale”: un’espressione che, per lui, significava soltanto che siamo ridiventati i selvaggi di un enorme villaggio, in cui tutti parlano e nessuno legge, anche se ci piace chiamare questo processo involutivo “globalizzazione”».
Philip Mayer, studioso dell’editoria americana, ha previsto che nel 2043 sarà venduta l’ultima copia cartacea del New York Times. Sarà lo stesso per i libri? Le copie cartacee scompariranno?
«In realtà, come accennavo poco fa, i giornali sono stati l’inizio del problema: si potrebbe dunque accogliere con soddisfazione la loro scomparsa. Purtroppo, scompariranno solo le loro copie cartacee: il che, di per sé, non sarebbe più traumatico del passaggio dalle pergamene alla carta stessa. Il giornalismo, invece, che è il vero problema, purtroppo sopravviverà, trasferendosi dove già si sta trasferendo: nella televisione e in rete. E sarà ancora peggio, perché scomparirà l’unica cosa che legava i giornali ai libri: il fatto, cioè, di dover essere letti. Rimarrà invece ciò che divideva i giornali dai libri: l’approccio frammentato alla realtà, basato sulla cronaca, che è l’esatto contrario dell’approccio unificato alla realtà, basato sulla storia. Il passaggio da un supporto a un altro, come dalla carta ai bit, non mi sembra invece particolarmente preoccupante, di per sé. Il problema sono i contenuti: un giornale, pur stampato su carta, rimane pur sempre un giornale, mentre un libro, pur digitalizzato, rimane pur sempre un libro».
Il rapporto tra tecnologia e letteratura non è solo dettato dall’avanzata dei supporti digitali per la lettura. Esistono algoritmi che affermano di prevedere quali libri avranno successo sostituendosi alla figura dell’editor, intelligenze artificiali che scrivono romanzi e romanzi realizzati direttamente online: pensa che queste trasformazioni cambieranno il significato della parola “libro” e della modalità di fruizione della lettura?
«La produzione mirata al consumatore si è sempre fatta: già cinquant’anni fa, ad esempio, il romanzo “Love story” era stato costruito a tavolino dopo un’inchiesta di mercato, che aveva indicato cosa il pubblico voleva leggere. Il vero problema sta nei meccanismi del mercato stesso, qualunque essi siano: algoritmi compresi. I classici sono stati scritti dagli autori per sé stessi, e hanno solo in seguito trovato i propri lettori. Oggi gli autori e gli editori si preoccupano invece, (anche comprensibilmente visto che scrivono e pubblicano per mantenersi e guadagnare), di avere successo e vendere. Forse dovremmo però ricordare che quasi tutti i classici, come diceva Umberto Eco, non si sono rivolti al pubblico esistente, che è cosa facile, ma ne hanno creato uno proprio, cosa molto più difficile.
La “post modernità” ha anche contribuito a decostruire il concetto e l’oggetto stesso di “libro”. Il che va bene, quando si tratta di provocazioni o stimolazioni letterarie, alla “Oulipo”, ma va male, quando diventa invece la prassi comune a cui tendono gli autori e gli editori, nel tentativo di assecondare il lettore. Il quale, purtroppo, oggi è più che altro un prodotto secondario della televisione: basta guardare, ad esempio, le classifiche della saggistica, e spesso anche della narrativa, dove a farla da padroni sono conduttori o giornalisti televisivi mascherati e contrabbandati da “autori”.
È questo il vero modo in cui la televisione e i social stanno ammazzando i libri: non tanto mandandoli in soffitta, quanto piuttosto plasmandoli a immagine e somiglianza del pubblico di Sanremo e del Grande Fratello, e facendoli così diventare altro da quello che erano. Sappiamo che, in Italia, due terzi della popolazione non legge neppure un libro all’anno. Ma il terzo che legge, si può presumere che legga i libri che vanno in classifica. E guardando appunto le classifiche, c’è veramente da chiedersi se, in fondo, non siano meglio quelli che non leggono, di quelli che leggono ciò che viene venduto…».